Le Valli Chisone e Germanasca Emigrazione nella Prima Metà del 900 Emigrazione nella Seconda Metà del 900 Emigrazione Oggi
Le Valli Chisone e Germanasca Emigrazione nella Prima Metà del 900 Emigrazione nella Seconda Metà del 900 Emigrazione Oggi
Leggi il racconto di Alex Berton
  “…La lingua non è stata un problema perché fin da piccolo i nonni mi...(continua)"  
Leggi il racconto di Franco Prinzio
  “...Per me è stato difficile, l’apprendimento della lingua, perché a quei tempi...(continua)"  
Leggi i racconti di Marta Valletti
  “…La mia famiglia si è trovata bene in Francia, mio padre ha imparato a scrivere...(continua)"  
Leggi il racconto di Franco Campo
  “…La fame ci tormentava, così, nel tardo pomeriggio, io e il mio compagno...(continua)"  
Leggi altri racconti di Franco Prinzio
  “…Non ho mai sofferto di nostalgia. Scrivevo abbastanza sovente ai miei, ed ero...(continua)"  
Leggi altri racconti di Alex Berton
  “…Pragelato ha mantenuto le sue tradizioni in virtù del fatto che questi emigranti...(continua)"  
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Leggi altri racconti di Alex Berton
  “…Negli Anni ’30 dei sacerdoti della Valle, come Don Lantelme, Don Samuel, Don Berger, avevano...(continua)"  
  Accoglienza e Problemi  
  Il tipo di accoglienza riservato dai francesi agli emigranti delle nostre Valli, in parte variò nel tempo, a causa degli eventi politici che videro le due nazioni alleate o nemiche.
Nel primo periodo gli emigranti italiani erano ben tollerati e in particolare i piemontesi potevano aspirare a impieghi più remunerativi, ad essi era aperta la possibilità di passare da un modesto lavoro ad una attività economica più soddisfacente. Molti da semplici boscaioli divennero commercianti di legname, altri da braccianti divennero proprietari di fattorie, alcuni aprirono piccoli negozi, altri ancora fecero carriera all’interno dei grandi alberghi. A ciò concorrevano alcuni fattori come la lingua e in certi casi un buon livello culturale.
Alex Berton, classe 1933:

Ingrandisci l'immagine“… La lingua non è stata un problema perché fin da piccolo i nonni mi parlavano in patuà, e mia zia e mia mamma in francese. […]
I pragelatesi non si distinguevano dagli abitanti del posto, la lingua era acquisita e il livello culturale era in media più alto di quello dei francesi. In Francia si ricostituiva una comunità, il direttore di ristorante, quello di sala si portavano tutto il loro personale, così pure il portiere ... Se avevi ambizioni di carriera transitavi da un albergo ad un altro a seconda di cosa ti conveniva…”

 
     
  Tuttavia i primi tempi furono difficili per tutti, anche chi si adattò molto presto alla nuova situazione ricorda problemi ed episodi di emarginazione.
Franco Prinzio, classe 1930, era partito dalla bassa Valle, da Villar Perosa e le cose per lui erano diverse:

“... Per me è stato difficile l’apprendimento della lingua, perché a quei tempi in Piemonte si parlava solo nel dialetto locale, ed io quindi conoscevo in modo molto approssimativo e poco corretto l’italiano. Vedevo la differenza tra me ed i miei amici toscani: loro parlavano il francese correttamente, come d’altronde facevano con l’italiano. Insomma, io ho avuto un po’ più di difficoltà, per l’accento in particolare.
Le prese in giro sono durate molto poco anche nella fornace dove lavoravo. Sì, ogni tanto: – Ehi, macarony! –, mi sentivo dire, ma erano cose cui non davo peso. Inoltre, acquisita la lingua, non c’era più differenza. Io andavo a ballare, ho avuto fidanzate, andavo ad imparare a nuotare… Mi sono trovato bene, ho fatto una buona esperienza di emigrazione…”

 
 
 
 
  Marta Valletti, classe1936, bambina ricorda i primi tempi in Francia:

Ingrandisci l'immagine“… La mia famiglia si è trovata bene in Francia, mio padre ha imparato a scrivere il francese e lo parlava benissimo, senza accento italiano; parlava anche il “patuà” del posto, il provenzale, che assomiglia molto al piemontese. Tuttavia i primi tempi sono stati un po’ difficili: ci dicevano: “ Venite a mangiare il nostro pane!”. "Les transalpin qui viennent manger nôtre pain".
… Dopo è cambiato perché all’emigrazione italiana sono succedute quella spagnola, portoghese e adesso algerina e dall’Est europeo. Comunque per gli italiani è stato più facile inserirsi perché arrivavano da paesi che avevano la stessa religione dei francesi e una cultura e modi di vita simili, anche la lingua tutto sommato non era un ostacolo molto grande. […]
A sei anni sono andata a scuola, non sapevo parlare il francese, in casa parlavamo solo piemontese, il francese lo usavamo solo con i francesi. Ero tutta timida e a disagio perché non capivo e non sapevo rispondere. Noi italiani ci chiamavano “babì“, “macaronì”. Nel periodo in cui è emigrato mio padre non eravamo ben visti, mi ricordo che mi canzonavano “la babì, la babì”…”



Come sottolinea Marta Valletti, le persone che emigravano dalle Valli avevano il vantaggio di spostarsi in un paese col quale avevano in comune tradizioni, religione e spesso anche la lingua, infatti il provenzale era parlato quasi ovunque ed è molto simile al francese, in alta Valle, poi, si parlava direttamente il francese. Storicamente la val Chisone e la val Germanasca erano state più volte comprese nel territorio francese e mai si erano interrotti i contatti commerciali, tant’è che l’alta Valle nella prima metà del Novecento continuava a gravitare su Briançons, più che su Pinerolo.

 
 
 
 
  Una maggiore ostilità verso gli emigranti italiani si ebbe invece a verificare con l’escalation della politica espansionistica fascista e lo scoppio della guerra. Tuttavia gli antichi vincoli, cementati da secoli di migrazioni, costituirono una rete di solidarietà che non si lacerò completamente neanche con lo scoppio della guerra. Durante uno dei più feroci rastrellamenti nazifascismi ( agosto 1944 operazione “Nachtigall”) che ebbe come teatro le valli Chisone e Susa circa trecento partigiani trovarono rifugio in Francia nel Queiras.
La testimonianza di Franco Campo, classe 1926, partigiano di Villar Perosa:

Ingrandisci l'immagine“… La fame ci tormentava, così, nel tardo pomeriggio, io e il mio compagno decidemmo di uscire per il paesino di le Roux, alla ricerca di qualcosa da mettere sotto ai denti.
Bussammo ad una porta, venne ad aprirci una donna che in piemontese ci chiese cosa volessimo. Era infatti originaria del cuneese. Alle sue spalle si intravedeva la tavola apparecchiata per due e in un angolo il focolare, sul quale borbottava una pentola. Un uomo fumava la pipa seduto lì accanto, sembrava pensieroso e non si era per nulla scomposto alla nostra vista.
Noi dunque, rispondemmo alla donna nel modo più gentile possibile, chiedemmo per favore un piatto di minestra, il cui profumo ci sollecitava, se mai ce n’era ancora bisogno, l’appetito.
Ella ci osservava, i volti provati dalle notti insonni e dalla paura, la magrezza dei nostri corpi parlavano per noi.
La donna si volse interrogativamente verso il marito, lui alzò gli occhi e il suo sguardo si fece duro, scosse la testa e disse: “No e poi no, ci hanno fatto la guerra!”
Allora con passo fermo la moglie si avvicinò all’uomo, lo afferrò per le spalle e lo scosse con violenza.
- Dì un po’ cosa ti passa per la testa?-
- Pensa a nostro figlio disperso su nelle Fiandre. Forse proprio in questo momento sta bussando alla porta di una casa sconosciuta, come fanno questi ragazzi, forse anche lui sta elemosinando un po’ di cibo… Vorresti che gli voltassero le spalle, che gli chiudessero la porta in faccia?-
Dalle sue parole, ma soprattutto dal tono della voce e dal portamento, traspariva una determinazione che l’uomo non seppe o non volle contrastare.
Abbassò il capo e ci fece cenno di entrare.
Ci fu dato un piatto di minestra caldo e poi la pentola da ripulire ben bene, fino in fondo…”

 
 
 
 
  Bruno Enrico, classe 1932, che ebbe esperienze di emigrazione prima e dopo la seconda guerra mondiale dice:

“… La Francia che ritrovammo nel dopoguerra, non era più la Francia di prima: ora eravamo malvisti; del resto ai francesi nel ‘40 avevamo dato una pugnalata alla schiena, ma non tutti eravamo colpevoli …”

Franco Prinzio aggiunge:

“… In Francia ci prendevano in giro, dicendo: – Voi vi siete venduti all’America, noi invece andiamo avanti da soli… – Queste cose mi sono state dette dal momento che mi vantavo di arrivare da un paese dove non c’era più la tessera del pane e dove si mangiava grazie agli americani. Questo ai francesi dispiaceva un po’! …”

Concorda anche la testimonianza di Aldo Roventi Beccari, classe 1930:

“… Venni accolto in modo cordiale anche se essere italiani, particolarmente allora, in Francia, non era considerato un gran pregio…”


Alcuni, come il padre di Marta Valletti, soffrivano profondamente di nostalgia per il proprio paese e ci tornavano regolarmente, in inverno o quando il lavoro lo consentiva; altri, come la madre di Marta, si rifiutarono di tornarci, forse perché cancellarlo dalla memoria poteva alleviare la sofferenza del distacco o perché nel tempo era maturato un sentimento di rabbia verso il luogo che non aveva saputo offrire la possibilità di una vita decorosa ai propri figli.
Marta Valletti:

“… Mio papà soffriva di nostalgia, mia mamma no: mia madre ha lasciato qui sua madre e non è mai più tornata a trovarla, mio padre invece tornava tutti gli anni a Perrero.
A casa di mia nonna ho trovato le lettere che mia madre scriveva alla sua in cui diceva che era molto felice in Francia, avevano avuto un buon raccolto, mettevano da parte molti soldi, …ma non era vero niente; non si erano arricchiti, semplicemente vivevano meglio…”



Aldo Roventi Beccari
:

Ingrandisci l'immagine“…La cosa peggiore era la lontananza da casa e la nostalgia che ogni sera mi assaliva: il mio sogno era pur sempre tornare a casa con un sacco di soldi!…”

 
 
 
 
  Franco Prinzio sente meno la mancanza della propria casa, il suo racconto aggiunge particolari rispetto alla comunità italiana in Francia:

“… Non ho mai sofferto di nostalgia. Scrivevo abbastanza sovente ai miei, ed ero felice. Mi sono trovato in un bel posto. Ho potuto da subito comprarmi una bicicletta; frequentavo l’Oratorio, perché i miei parenti erano molto religiosi. La prima cosa che mi hanno detto è stata: – Qui, la domenica si va a messa e poi all’Oratorio. – Era quasi un obbligo, ma lo facevo volentieri, perché sapevo di far contenti i miei parenti. La religione a Marsiglia era un po’ trascurata, noi abbiamo esportato lì la religiosità, l’attaccamento alla Chiesa. Non eravamo fanatici, però noi alla domenica, come si usava fare qua, continuavamo ad andare a Messa.
Per il resto ero in piena libertà…”

Una grande città come Marsiglia, poteva diventare molto pericolosa per un giovane emigrante, ben lo sapevano le famiglie che accoglievano i nuovi arrivati e che non mancavano di metterli in guardia contro tali pericoli.
Franco Prinzio:

“… Negli anni in cui ho vissuto in Francia sono stato ospitato da una zia vedova che si occupava di me come fossi stato suo figlio, aveva solo una grossa paura: sapeva che io ero solo ed arrivavo da un piccolo paese del Piemonte, trovandomi in una grande città, Marsiglia, avrei potuto trovare cattive compagnie. Già in quel periodo c’erano delle persone poco affidabili, la preoccupazione dei miei parenti era quella. […]
Per esempio, in una zona non molto lontana da quella dove vivevo, che si chiama “La Juliette”, arrivano i carichi dall’Italia di arance, sapevo che ogni tanto delle persone, di notte, andavano ed aprivano il vagoni dove erano contenuti i frutti, anche solo per veder cadere giù le arance ed io ho sempre cercato di restarne alla larga.
Se avessi sbagliato, sarei finito dai gendarmi, e siccome “i documenti parlano chiaro”, sarei stato rimpatriato sicuramente…”

 
 
 
 
  Le testimonianze concordano nell’affermare che gli emigranti tendevano a ricostituire nel nuovo paese delle piccole comunità, all’interno delle quali probabilmente si sentivano più sicuri, ma che rendevano più difficile il processo di integrazione.
Per quanto riguarda l’emigrazione stagionale tale processo non si avviò mai o si risolse in atteggiamenti di facciata se Alex Berton afferma:

Ingrandisci l'immagine“… Pragelato ha mantenuto le sue tradizioni in virtù del fatto che questi emigranti andavano, guadagnavano e riportavano grandi risorse. Al momento in cui rientravano nel paese si riappropriavano della cultura locale. La donna che andava a lavorare all’estero partiva vestita in costume, si cambiava “a la mode” alla stazione di Oulx o di Cesana (dove partivano i treni e i pullmann) faceva la sua stagione e rientrava cambiandosi di nuovo a Oulx o Cesana per poter rientrare nelle sue tradizioni: “c’mà la ventia” (come si conviene)…”

 
     
 
I contatti con i paesi di origine rimangono forti, non solo a livello famigliare, ma anche associativo; leggiamo sull’Eco del Chisone del 5 febbraio 1921, cronaca di Pragelato:

 
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Sorgono in Italia associazioni volte a sostenere gli emigranti e ad evitare loro esperienze spiacevoli, come la già citata “Opera Bonomelli”

 
     
     
 
Anche a livello locale nascono iniziative volte a istruire i possibili emigranti rispetto alle norme relative all’espatrio. Vengono fornite informazioni sui paesi di destinazione. A Perrero, nell’ottobre del 1920, è istituito un comitato per l’assistenza e la tutela degli emigranti proprio con queste finalità.

 
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  Sullo stesso tema Alex Berton nella sua intervista ricorda:

“… Negli Anni ’30 dei sacerdoti della Valle, come Don Lantelme, Don Samuel, Don Berger, avevano istituito un’organizzazione con sedi a Parigi, Lione alla quale potevano rivolgersi le ragazze e i giovani emigranti, per avere indicazioni, suggerimenti ed aiuti per qualsiasi evenienza. Era nata soprattutto per le donne, affinché non si trovassero in una città sconosciuta completamente abbandonate. Questo per dare un’idea della mentalità del tempo…”


Ingrandisci l'immagineL’emigrante quando rientrava si sentiva in dovere di raccontare, di dire quello che aveva vissuto, quello che aveva passato. Ritrovava le sue tradizioni, arrivava con del denaro e molte esperienze di vita. Gli emigranti pragelatesi che lavoravano nei grandi alberghi vivevano il viaggio di ritorno come una vera e propria festa: si fermavano in alberghi meno lussuosi e giocavano a invertire i ruoli: ora erano loro che si facevano servire! Tornati a casa organizzavano battute di caccia, a settembre partivano col cavallo e portavano giù a Pinerolo tre o quattro quintali di patate, un po’ di segale e così via, ma soprattutto con i soldi guadagnati acquistavano vino, mele, pere, castagne, farina.

 
 
 
 
  Chi tornò lo fece perchè costretto da motivi contingenti come lo scoppio della seconda guerra mondiale.
Alex Berton:

“… Siamo poi ritornati in Italia alla fine di agosto del 1939, siamo venuti via prima perché c’era stata la dichiarazione di guerra tra la Francia e Germania e Vittel era in Alsazia, dove c’ era la linea Maginot. Il direttore dell’albergo aveva consigliato mio papà di rientrare, “non ci sarà la guerra tra i nostri due paesi, ma è opportuno che tu rientri”. L’anno successivo mio papà avrebbe dovuto prendere la direzione dell’albergo, ma purtroppo la guerra era scoppiata anche tra Italia e Francia e non siamo più tornati. Siamo rientrati con il sig. Marauda di Luserna San Giovanni che aveva una Augusta, quelle macchine che avevano l’aquila davanti sul cofano e faceva il servizio di autista a Vittel…”


 
 
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Trascrizione della Lettera
Vittel, 13 gennaio1940

Signor Celestino Berton
Pragelato
Provincia di Torino ( Italia )

Mio Caro Berton,

ho ricevuto la vostra gradita lettera del 28 ultimo scorso che mi inviava i vostri migliori auguri per il 1940; vi ringrazio e vi prego di accettare i miei in cambio.
Per quel che riguarda la stagione 1940, niente è deciso fino al presente.
Non ci resta che il GRAND HOTEL e l’ERMITAGE e questi due hotels, ma, essendo situati nella zona dei soldati, il loro utilizzo sarà certamente paralizzato.
Tuttavia credo che saremo prenotati all’inizio di Febbraio e, se c’è la possibilità di riservarvi i vostri posti precedenti, lo farò molto volentieri.
Augurando che il 1940 ci porti la Vittoria, una pace definitiva e l’amicizia dell’Italia, vi invio, mio caro Berton e Signora, i miei migliori saluti.

Direttore Generale del GRAND HOTELS

 
 
 
 
  Molti valligiani rimasero per sempre in Francia e divennero cittadini francesi a tutti gli effetti, come altre migliaia di emigranti di nazionalità diverse.

Questo fatto ci induce a riflettere sul significato odierno di “italiano”, “francese”, “marocchino”… e ci suggerisce un’idea di comunità aperta, dove vi è possibilità di sviluppo e di vero progresso per tutti, a patto che tutti condividano i valori legati alla dignità dell’uomo e al rispetto reciproco tra culture diverse.

Ancora oggi molti abitanti delle valli Chisone e Germanasca hanno parenti francesi, alcuni di questi hanno qui una casa, tornano per le vacanze, ma ormai si tratta di cugini di terzo, quarto grado e i legami si vanno affievolendo.

 
 
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