Le Valli Chisone e Germanasca Emigrazione nella Prima Metą del 900 Emigrazione nella Seconda Metą del 900 Emigrazione Oggi
Le Valli Chisone e Germanasca Emigrazione nella Prima Metą del 900 Emigrazione nella Seconda Metą del 900 Emigrazione Oggi
Leggi l'intervista a Alda Jahier
  “...Giuseppina Reynaud, nata a Pramollo, nel 1899, è andata a fare la balia in...(continua)"  
Leggi l'intervista a Aldo Roventi Beccari
  Sono emigrato nel luglio del 1948 e sono andato in Francia , nella Normandia nel...(continua)"  
Leggi l'intervista a Attilio Breuza
  Il signor Breuza Enrico, padre di Attilio, è emigrato in Francia nel 1929 ed è tornato...(continua)"  
Leggi l'intervista a Alex Berton
  Nei primi decenni del ‘900 Pragelato contava circa 1500 abitanti, c’era...(continua)"  
Leggi l'intervista a Bruno Bordiga  di Ambra Varzani
  Il mio trisnonno partiva da Porte per andare a piedi fino in Francia a lavorare come...(continua)"  
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  “Monterimar” : il paese del torrone (adesso lì vicino hanno costruito una centrale...(continua)"  
Leggi l'intervista a Ester Reynaud di Tamara Pagetto
  La mamma e il papà della signora Ester, la mia vicina di casa, sono emigrati in...(continua)"  
Leggi l'intervista a Franco Prinzio
  Io sono emigrato nel 1947, a fine guerra. La Francia aveva bisogno di...(continua)"  
Leggi l'intervista a Irma Giovenale
  Mi ricordo che i miei si sono sposati verso il 1920 e poi sono emigrati...(continua)"  
Leggi l'intervista a Nellina Sappč di Martina Bouchard
  Sappe’ Adolfo e Long Luigia, i genitori di mia nonna Nellina, sono...(continua)"  
Leggi l'intervista a Ughetto Malvina
  La famiglia di mio padre era composta da tre sorelle (Marietta madre...(continua)"  
Leggi l'intervista a Marta Valletti
  Sono emigrata in Francia nel 1938 a gennaio. Mio padre si chiamava Albino e...(continua)"  
  Le Fonti - INTERVISTE  
  INTERVISTA a Alda Jahier classe 1932 Pramollo (To)  
  “… Giuseppina Reynaud, nata a Pramollo, nel 1899, è andata a fare la balia in Francia.
Aveva lasciato qui a Pramollo il suo primo figlio ed era andata ad allattare il neonato di una ricca famiglia di Parigi; i soldi che le davano li spediva alla famiglia.
Per molti anni è rimasta “al servizio” di quella famiglia, facendo tanti lavori.
Come lei hanno fatto molte donne di Pramollo…”
 
     
  INTERVISTA a Aldo Roventi Beccari classe 1930 Pinasca (To)  
  Sono emigrato nel luglio del 1948 e sono andato in Francia , nella Normandia nel paese di Cuy Saint Fiacre.
Decisi di emigrare perché ero il primo di tre fratelli, andai in cerca di lavoro, riuscii ad avere questa opportunità tramite un amico che era già occupato in una cascina.
Partii da solo all’età di 18 anni, sapendo di dovere rientrare in Italia per il Servizio Militare, vi restai per due anni, sino al 1950, risultavo quindi già “renitente alla leva”.
Per espatriare serviva il passaporto, la carta di soggiorno e la carta di lavoro che dovevano essere richiesti tramite il consolato italiano.
Il viaggio fu abbastanza complicato:
Dubbione – Pinerolo con il “tram way - Gibuti”
Pinerolo –Torino in treno
Torino – Parigi in treno
Parigi – Gournay en Bray con una specie di treno locale
Gournay en Bray - Cuy St. Fiacre (la cascina ovviamente era in mezzo alla campagna in località Ferme le Quesnoy) in automobile.
Da Dubbione partii abbastanza presto al mattino ed arrivai a Parigi il mattino seguente, ma arrivai a destinazione solamente alla sera per l’ora di cena.
Durante i due anni di permanenza non cambiai mai le mie mansioni, ero il “sartiè” cioè l’addetto ai cavalli che erano impiegati ad arare, seminare, mietere, trainare i carri, ecc.
Quindi facevo anche lo stalliere, e al pomeriggio si provava a guidare il trattore (il primo che abbia mai visto).
Bisogna pensare che era finita da poco la 2° guerra mondiale, a Dieppe, distante circa 30 km dalla fattoria, erano sbarcati gli alleati, la Francia stava lentamente tentando di ricominciare a vivere in un modo normale.
La paga sinceramente non mi sembrava un granchè: per 5000 franchi al mese, compresi vitto e alloggio, dovevo lavorare dalle 5 del mattino alle 10 di sera di tutti i giorni dell’anno, tranne una settimana di vacanze.
L’alloggio era fornito dai proprietari ed era una stanza senza servizi in una specie di magazzino per gli attrezzi freddo e polveroso.
Venni accolto in modo cordiale anche se essere italiani, particolarmente allora, in Francia, non era considerato un gran pregio.
Non capivo il francese, ma non era così lontano dal dialetto piemontese, dovetti imparare a parlare mentre lavoravo.
Il clima del posto non mi piaceva perché era molto umido, in particolare in inverno c’era sempre la nebbia.
La cosa che più apprezzavo era poter lavorare gestendomi autonomamente, ovviamente dovevano esserci i risultati a fine giornata; la cosa peggiore era la lontananza da casa e la nostalgia che ogni sera mi assaliva: il mio sogno era pur sempre tornare a casa con un sacco di soldi!
A casa mio padre era rimasto vedovo qualche anno prima e lavorava alla RIV di Villar Perosa, mio fratello, di due anni più giovane di me, e mia sorella, di nove anni più giovane di me, erano stati affidati alle famiglie di due zie materne.
Sono rientrato in Italia per il servizio militare e non sono mai più tornato a Cuy Saint Fiacre.
 
 
 
 
  INTERVISTA a Attilio Breuza classe 1925, Salza (To)  
  Il signor Breuza Enrico, padre di Attilio, è emigrato in Francia nel 1929 ed è tornato nel 1942, in seguito allo scoppio della guerra.
È emigrato perché non trovava lavoro.
Si è trovato molto bene perché là aveva dei suoi parenti .
È’ partito da Fontane, a piedi, ed ha raggiunto la Francia passando dal colle d’Abries.
A Marsiglia vendeva legna e carbone, prima come dipendente, in seguito aprendo un negozio in proprio.
Dopo è emigrata la signora Giulia Breuza, la mamma di Attilio, nel 1932; si è spostata in treno.
Attilio è emigrato nel 1933, aveva otto anni.
Nel 1942, durante la seconda guerra mondiale, gli italiani non erano ben accettati dato che erano alleati con i Tedeschi, perciò al signor Enrico avevano ritirato la licenza per vendere legname, per questo motivo lui, la moglie e il figlio sono tornati in Italia; Attilio aveva diciassette anni quando sono tornati.
 
 
 
 
  INTERVISTA a Alex Berton classe 1933 Pragelato (To)  
  Nei primi decenni del ‘900 Pragelato contava circa 1500 abitanti, c’era un problema di sovrappopolazione.
Nella prima metà del ‘900 nell’alta Valle (da Sestrieres fino a Bec Daufin) si viveva di poco, di prodotti locali. Si trattava di una realtà esclusivamente agricola ( fatta eccezione per le miniere del Beth ormai in fase di smantellamento): si coltivavano segale, orzo, avena, patate; si allevava bestiame che, oltre a dare aiuto nei campi,forniva carne, latte, formaggi…
Si consideri che ogni frazione di Pragelato aveva una portata bovina di 20 capi e che le frazioni erano 19; ogni famiglia aveva due o tre capi di bestiame bovino, c’era il mulo, l’asino o il cavallo e 4 o 5 pecore, uno o due maiali, quindi di cibo ce n’era, ma le risorse erano insufficienti per il numero di persone.
Si faceva fronte a necessità eccezionali con la vendita di piante.
L’emigrazione, per lo più stagionale, aveva lo scopo di integrare i proventi dell’agricoltura locale.
Vi erano pochissimi rapporti con la bassa Valle, il punto di riferimento rimaneva sempre Chambéry, prima era stata Briançon, fino al periodo degli Escartons.
Nel 1713, col passaggio alla casa Savoia, si mantenne la parlata francese e le tradizioni locali, ma avvenne un graduale spostamento verso la realtà savoiarda, è da lì che le nostre donne recuperarono il costume. Ed è proprio verso queste regioni che si dirigevano i pragelatesi.

I bisnonni e i nonni avevano alle spalle un’emigrazione limitata nel tempo, che si occupava in lavori manuali pesanti, mentre con la generazione di mio padre (Anni ’20 – ‘30) si determinò progressivamente un'emigrazione legata all’attività alberghiera. Fu interessato principalmente Pragelato, ma in modo diverso coinvolse anche Usseaux e Champlas du Col. Da questi paesi partiva manodopera che veniva impiegata come barman, vendevano caldarroste o lavoravano nelle “brasserie”. Nella realtà di Champlas du Col e di Cesana si trattava piuttosto di un esodo definitivo, si andava a lavorare nelle fabbriche di biciclette, nelle coltivazioni di tabacco. La situazione era totalmente diversa, le famiglie erano più numerose e il gruzzolo serviva per sistemarsi in Francia.

A Pragelato era dunque l’epoca dei grandi alberghi, era un tipo di emigrazione che coinvolgeva l’80% della popolazione.
Il flusso dei pragelatesi si dirigeva su Marsiglia, Cannes, Nizza, ma più massicciamente sulla Savoia: Chambery, Annecy, Aix- Le- Bain, Evian o Parigi, Dihar, Vittel.
Le donne invece emigravano come balie, governanti, donne di compagnia in famiglie nobiliari.
Pragelato ha mantenuto le sue tradizioni in virtù del fatto che questi emigranti andavano, guadagnavano e riportavano grandi risorse. Al momento in cui rientravano nel paese si riappropriavano della cultura locale. La donna che andava a lavorare all’estero partiva vestita in costume, si cambiava “a la mode” alla stazione di Oulx o di Cesana (dove partivano i treni e i pullmann) faceva la sua stagione e rientrava cambiandosi di nuovo a Oulx o Cesana per poter rientrare nelle sue tradizioni: ”c’mà la ventia” (come si conviene).
L’emigrazione di questo tipo forniva ad ogni famiglia una notevole entrata, un guadagno inimmaginabile per l’epoca, se consideriamo il fatto che allora la Lira valeva più del Franco francese.
Negli anni 1928-’29 si riusciva già a portare a casa un corrispettivo di 150.000 / 200.000 lire per persona, mio papà e mia mamma con questo tipo di lavoro si sono fatti la casa.
Ci sono famiglie che hanno realizzato, comprato, costruito e ci sono famiglie che invece hanno capitalizzato e si sono ritrovate con 400 - 300 mila lire con cui, allora, era possibile acquistare tre o quattro cascine di Pinerolo. Dopo la guerra si sono trovati con un capitale svalutato e li ha poi salvati la pensione dei coltivatori diretti a 5.000 lire al mese. (Anno 1957/58)

 
 
 
 
 

Mio padre è originario di Pragelato, la sua famiglia aveva 4 o 5 ettari di terreno divisi in seminativi, prati irrigui, bosco, il solito bestiame e qualche animale da cortile.
Egli era nato nel 1899, aveva un fratello e una sorella, il fratello era più anziano e quindi è partito per primo, quando poi è rientrato è partito mio padre e ha passato un anno e mezzo in una famiglia inglese, dove faceva il valet, l’uomo di fatica: puliva l’argenteria, le scale… La prima volta che è emigrato poteva avere 12 anni, siamo nel 1911, e aveva i soldi contati per arrivare in Inghilterra, aveva avanzato forse 5 lire o centesimi e li ha dovuti dare al fratello perché potesse pagarsi il viaggio di ritorno. Dopodiché è stato in Germania, ma per poco tempo, è rientrato a Pragelato all’età di 15 – 16 anni, quindi ha fatto la grande guerra. Durante questo periodo il flusso migratorio è diminuito, ma non si è interrotto perché eravamo alleati della Francia.
Ha poi cominciato a lavorare negli alberghi francesi e lui ha preso il ramo ristorante e il servizio dei piani, all’inizio era cameriere.
Sul posto di lavoro ha conosciuto mia madre che era di un paesino nei pressi di Evian.
La prima volta che mia mamma è venuta a Pragelato era piuttosto preoccupata perché mio papà le aveva parlato di un paese di montagna, non è che nella sua realtà di paese di pescatori si stesse molto meglio, comunque..
L’evento più tragico è avvenuto a Pinerolo, dove hanno dovuto dormire in uno stallaggio, la Rosa Rossa, e mio papà è uscito con gli amici. Lei è rimasta sola in camera, sentiva i carrettieri bestemmiare e questo è stato un dramma, non capiva cosa dicevano. Invece quando è arrivata a Pragelato l’hanno accolta i parenti più prossimi, suocero, suocera, cognata con una signora che parlava squisitamente il francese, mio nonno inoltre insegnava il francese nelle scuole. Le avevano già riservato una camera, avevano organizzato un ricevimento all’ Albergo Albergian e dopo è stata accompagnata in tutte le case della frazione. Invece al matrimonio avevano partecipato solo i due papà.
Per l’alta Valle è iniziato il periodo dei matrimoni con donne francesi.
Si sono sposati nel 1927, hanno costruito la casa dove ora vivo io, era già finita negli anni 1929 – 1931 - 1932, pagata con il solo introito di mance. Il nonno savoiardo, in seguito, ha voluto comunque rendersi conto di com’era sposata la figlia, quindi è partito senza dire niente a nessuno ed è venuto nel paese, quando la figlia non c’era. Mia mamma era già partita per la stagione estiva, lui aveva preso il treno fino a Oulx e poi era venuto a piedi fino a Pragelato. Il consuocero già lo conosceva, ma gli altri parenti no, tuttavia hanno fatto festa una settimana . Tornato a casa ha detto alla moglie: “ Elle est bien marie l’Angelique!” (Angelica è ben sposata!)
Nel 1933 sono nato io, i bambini fino all’età di tre, quattro, cinque anni rimanevano al paese e venivano assistiti dalle zie o dai nonni, poiché la coppia giovane andava a fare la sua stagione. Infatti quando gli uomini partivano normalmente in paese rimanevano le donne e comunque i ragazzi fino a 14 – 16 anni.
Questa è stata anche la mia sorte: io ho sempre ammirato la zia che mi ha allevato e che aveva per me un’affezione particolare contraccambiata, ma non ha mai sostituito la mamma; ci sono stati dei casi dove la zia o la nonna hanno sostituito definitivamente il padre o la madre e questo ha causato dei traumi.
Diventati più grandicelli i figli seguivano i genitori oltre confine.
Per le stagioni negli alberghi partivano normalmente ad aprile, prima di Pasqua, poi si rientrava a fine agosto o ai primi di settembre, alla fiera del 14 settembre di Soucère Haute tutti erano rientrati quindi si faceva una grande baldoria, una grande festa e grandi partite di caccia.

 
 
 
 
 

Mi ricordo il mio distacco da Pragelato e quindi da mia zia, la sorella di mio papà, dai nonni, avevo cinque anni. Sono andato in taxi da Pragelato fino a Oulx , lì mi hanno consegnato ad un’hostess e ho viaggiato fino a Vittel, erano treni a carbone e mi ricordo che in una delle tante stazioni, di notte, mi hanno passato un cuscino: per me era una cosa eccezionale e mi hanno adagiato per dormire. Alla stazione mi aspettava la mamma e una vita totalmente diversa da quella del mio paese. Sono stato affidato a una famiglia che mi teneva in pensione. Il marito era impiegato di una società delle acque minerali di Vittel, mentre la signora era casalinga. La lingua non è stata un problema perché fin da piccolo i nonni mi parlavano in patuà, e mia zia e mia mamma in francese.
Mi accompagnavano a vedere papà e mamma due volte al giorno in albergo, allora lui era direttore dei piani, lo vedevo verso le 10,30 - 11, prima che incominciasse il servizio, quando già si era tolto la divisa dal mattino per indossare quella del mezzogiorno. Mi potevo intrattenere un quarto d’ora con lui, in quel momento non potevo vedere mia mamma, che incontravo poi verso le tre, le quattro del pomeriggio. Soprattutto i primi tempi, quando riuscivo a farmi portare nella loro camera, pur di non dover ripartire mi facevo venire dei terribili mal di pancia. La mia giornata di bambino era soprattutto di divertimento, era comunque una vita che arricchiva culturalmente. Mi ricordo alla fine della stagione si faceva la festa per i figli del personale e ci aveva intrattenuto Josephine Baker, nel parco dell’albergo, dove c’era un teatrino con Ghignol. La cantante si era esibita e aveva offerto ad ognuno un’enorme scatola di cioccolato delizioso, delle “tablettes” di cioccolato. L’ho mangiato per tutta l’estate e quando sono arrivato a Pragelato per i miei amici era qualcosa di eccezionale.

Quando si partiva a 15, 16 anni si sapeva già a cosa si andava incontro, normalmente c’era sempre una persona adulta che lo accompagnava e lo introduceva al lavoro, i genitori affidavano i ragazzi a persone conosciute, tant’è che c’erano degli alberghi con l’80% del personale costituito da pragelatesi. Mia mamma (francese) immaginava Pragelato una città di 40.000 abitanti, tutti gli italiani che conosceva nell’albergo erano di Pragelato….
I pragelatesi non si distinguevano dagli abitanti del posto, la lingua era acquisita e il livello culturale era in media più alto di quello dei francesi. In Francia si ricostituiva una comunità, il direttore di ristorante, quello di sala si portavano tutto il loro personale, così pure il portiere ... Se avevi ambizioni di carriera transitavi da un albergo ad un altro a seconda di cosa ti conveniva: una persona di Villardamond è diventata direttore dell’albergo dove era alloggiata Diana d’Inghilterra quando è morta.
Il Grand Hotel di Vittel, dove lavoravano mio papà e mia mamma, era di 150/200 posti letto ed erano 300 dipendenti. Il solo parco era di una quindicina di ettari e aveva 24 ore su 24 un’orchestra che suonava un sottofondo musicale. La clientela arrivava con macchine private o con vagoni letto e con tre o quattro, cinque, sei bauli e prendevano una suite, quindi era un modo diverso l’utilizzo dell’albergo, non paragonabile a oggi. I clienti spesso sceglievano l’albergo nel quale sapevano di ritrovare il maitre, la governante, quel determinato personale. Era una clientela danarosa. Mia mamma è stata governante, quindi si occupava delle camere, e cambiava divisa tre volte al giorno.
Non si vedevano donne in sala ristorante, i ruoli maschili e femminili erano netti. La donna aveva ruoli più personali come la ristiratura delle crinoline, la pulizia della suite o della camera che veniva anche arredata in funzione del tipo di clientela che aveva, la clientela poteva chiedere anche un arredamento particolare.

Non vi erano contributi previdenziali o assistenziali, non vi era una paga, veniva dato l’alloggio gratuito e il vitto gratuito e le mance costituivano lo stipendio e venivano ripartite in funzione dei compiti svolti. […]
Veniva attribuita una percentuale in funzione alla mansione svolta.
Le ore di lavoro erano di 15, 16 al giorno, ma era una cosa comune, d’altra parte chi rimaneva in Valle e lavorava la campagna aveva un orario altrettanto duro: si diceva che erano 8 mesi d’inverno e 4 d’inferno.
Comunque trovavano del tempo libero da passare in divertimenti fuori dall’albergo, fosse anche all’una di notte. Ci si trovava pragelatesi con pragelatesi o addirittura si formavano gruppi nuovi. Il divertimento principale era il ballo, ma si organizzavano anche delle feste dove si imitava il cliente che si serviva a tavola.

 
 
 
 
 

Succedevano spesso delle eccentricità: un bagno nel latte, si faceva partire un battello per andare a prendere una forma di gruviera e poi lo si serviva a tavola al cliente che magari se ne tagliava una fettina sola e tutto il resto veniva regalato al personale. Ciò non lo si considerava come uno sciupio, era una cosa normale. Mi ricordo che mia mamma aveva un guardaroba da non credere, nel 1942-‘43 mia mamma andava a messa sempre col suo cappellino e ne aveva un quantitativo industriale, perché c’erano clienti che mettevano i cappellini una volta sola e poi lo regalavano. Poteva tornare da una stagione con una cappelliera di 20 o 30 modelli.
All’interno dell’albergo c’erano un’infinità di mansioni: c’era il servizio di amministrazione, la portineria, il ristorante e il servizio dei piani, il servizio di trasporto del cliente dalla stazione …Qualcuno partiva con la sua macchina e faceva il servizio di taxi in Francia, servizio che dopo la guerra hanno continuato a fare qui per Sestrieres. Si aspettavano i clienti a Oulx e si portavano negli alberghi…Principi di Piemonte, Duche’ ecc…..

Siamo poi ritornati in Italia alla fine di agosto del 1939, siamo venuti via prima perché c’era stata la dichiarazione di guerra tra Francia e Germania e Vittel era in Alsazia, dove c’ era la linea Maginot. Il direttore dell’albergo aveva consigliato mio papà di rientrare: “Non ci sarà la guerra tra i nostri due paesi, ma è opportuno che tu rientri”. L’anno successivo mio papà avrebbe dovuto prendere la direzione dell’albergo, ma purtroppo la guerra era scoppiata anche tra Italia e Francia e non siamo più tornati. Siamo rientrati con il sig. Marauda di Luserna San Giovanni che aveva una Augusta, quelle macchine che avevano l’aquila davanti sul cofano e faceva il servizio di autista a Vittel.
Io ho trovato più difficile il rientro in Italia che la mia esperienza di emigrante. Nella scuola fascista ero indicato a dito, perché avevo la mamma francese e per lungo tempo non ho vestito la divisa di figlio della lupa.
Coloro che non sono rimpatriati hanno poi ottenuto a fine guerra la naturalizzazione e la cittadinanza francese.
L’emigrante quando rientrava si sentiva in dovere di raccontare, di dire quello che aveva vissuto, quello che aveva passato. Ritrovava le sue tradizioni, arrivava con del denaro e molte esperienze di vita.
A settembre si partiva col cavallo e si portavano giù a Pinerolo tre o quattro quintali di patate, un po’ di segale e così via, ma soprattutto con i soldi guadagnati si acquistavano vino, mele, pere, castagne, farina , si stava bene.
In pratica fino agli anni 1946 – 47 Pragelato ha continuato a vivere come aveva vissuto nel 1840 –’50.

Tutte le persone emigranti avevano una “carte de travail”, era un documento che ti consentiva di lavorare. Alla frontiera bastava il passaporto, ma senza la carta di lavoro non potevi svolgere un’attività riconosciuta, legale. E questa carta non è più stata rinnovata nel dopoguerra e quindi il flusso migratorio è cessato e le persone che avevano avuto queste esperienze di lavoro in albergo hanno proseguito la loro attività in alberghi italiani, come a Venezia, San Remo, Sain Vincent, Torino. Dal 1940 al 1960 tutti gli alberghi di Torino avevano personale di Pragelato. Mio padre è poi andato a lavorare a Recoaro Terme ed ha avviato al lavoro una decina di giovani pragelatesi, ma il livello dell’albergo non lo soddisfaceva, gli avevano dato personale femminile per il ristorante e lui non lo tollerava e poi diceva che non era abituato a servire pastasciutte. Anche a livello pensionistico hanno avuto dei trattamenti di favore, perchè nel frattempo erano stati fatti degli accordi a livello europeo.
La previdenza sociale in Italia incomincia con il fascismo intorno agli Anni ’20, mentre in Francia verso il ’30. Lo stato italiano ha liquidato gli anni lavorativi svolti in Italia e la Francia quelli svolti sul suo territorio. In Francia non esisteva la previdenza sociale, ma vi erano casse che gravavano sul datore di lavoro e garantivano una pensione complementare, bastava esibire i certificati di lavoro. E i certificati di lavoro tutti li conservavano perchè erano un po’ il curricolo di ognuno. Alla fine di ogni stagione ne veniva assegnato uno.

Negli Anni ’30 dei sacerdoti della Valle, come Don Lantelme, Don Samuel, Don Berger, avevano istituito un’organizzazione, con sedi a Parigi e a Lione, alla quale potevano rivolgersi le ragazze e i giovani emigranti, per avere indicazioni, suggerimenti ed aiuti per qualsiasi evenienza. Era nata soprattutto per le donne, affinché non si trovassero in una città sconosciuta completamente abbandonate. Questo per dare un’idea della mentalità del tempo.

 
 
 
 
  INTERVISTA a Bruno Bordiga classe 1930, Porte (To)
di Ambra Varzani
 
 

Il mio trisnonno partiva da Porte per andare a piedi fino in Francia a lavorare come scalpellino (gli scalpellini di Porte hanno fatto i portici di via Roma a Torino e il mio trisnonno era uno di quelli), perché in Italia non c’era abbastanza lavoro ed aveva 4 figli.
Lui andava a piedi, non era un lavoratore stanziale, ma soltanto stagionale.
Terminata la stagione tornava a casa con un piccolo stipendio.
Quando i figli sono cresciuti ha lasciato il lavoro dello scalpellino in Francia ed ha iniziato a fare l’orto e a tenere galline e conigli.

 
     
  INTERVISTA a Bruno Enrico classe 1932 Pinasca (To)  
  “Monterimar”: il paese del torrone (adesso lì vicino hanno costruito una centrale nucleare ), e’ qui che sono nato e così i miei fratelli. In precedenza i miei genitori avevano dovuto cambiare due o tre paesi, in un altro luogo avevano anche comprato una casetta (abitata in precedenza da profughi della guerra civile di Spagna del ’38)…ma poi da lì, per mancanza di lavoro, hanno dovuto spostarsi. Poi si stabilirono a Monterimar dove c’era abbastanza lavoro: mio padre faceva il muratore, mia madre andava a “fare ore “ al servizio di varie famiglie.
In Francia ragazzi e ragazze andavano in due scuole dislocate in due luoghi diversi del paese. Il 14 luglio , festa della Repubblica (presa della Bastiglia), davano dei dolci e delle patate fritte in un grande parco dove le truppe coloniali francesi tenevano un concerto.
Nel 1940 quando Germania e Italia hanno occupato la Francia c’è stata data la possibilità di ritornare in Italia perché mio padre era perseguitato politico (per motivi politici, finì anche in carcere nel dicembre del ’43).
Passammo dal Frejus, con il treno; nel mese di dicembre di quell’anno avevo 8 anni, da poco frequentavo la terza elementare in Francia. Di quel viaggio di ritorno, ricordo quando il treno si fermò a Bardonecchia e vidi dei soldati che avevano la penna sul cappello, erano alpini, avevano le slitte con i cavalli ! Non li avevo mai visti e ho ancora chiaro questo ricordo…
Quando sono venuto in Italia mi hanno fatto ricominciare dalla prima classe, sono rimasto indietro di 2 anni. Ho cominciato la scuola con la classe del ‘34, (io sono del ’32) e mia sorella del 29 ha cominciato con quelli del ‘31.
La mia maestra era di Pragelato , parlava il francese e mi ha aiutato molto.
Comunque ho imparato subito l’italiano.
Dopo la guerra, quando ormai avevo già 13 ,14 anni non si trovava lavoro, c’era poco da fare, mio padre lavorava alla R.I.V.
Voleva però tornare in Francia, perchè là si stava meglio, prima della guerra… dove era stato dal 1925 al ‘40.
Così siamo partiti : eravamo una squadra nella quale c’era anche gente di Perosa e in questo gruppo c’ero anch’io, avevo 15 anni nel 1947.
Personalmente non ero molto contento di andare, lasciare i miei amici…sono partito malcontento…
Avevamo un contratto con un impresario francese per andar a lavorare là. Se fosse andato tutto bene la mamma e mio fratello ci avrebbero raggiunto.
In Francia ci andammo a piedi e, anche se bisognava essere in regola , noi non avevamo i passaporti: non avevamo i documenti , era tutto clandestino …Passammo da Praly, tutto di nascosto . C’era un tale chiamato “ Monsignore” che sfruttava quelli che andavano in Francia: ad uno faceva caricare una fisarmonica, all’altro una macchina da scrivere , ad un altro ancora del riso (qui in Piemonte in tempo di guerra c’era il riso, era tesserato ma c’era) per avere in cambio del sale. Di questo si occupava, “ di questo tipo di viaggi”.
Il colle d’Abries era stato sempre la strada dei contrabbandieri. Alcune volte si incontravano dei partigiani che ci prendevano la roba, in tempo di guerra questi episodi erano frequenti.
La Francia che ritrovammo nel dopoguerra, non era più la Francia di prima: ora eravamo malvisti; del resto ai Francesi nel ‘40 avevamo dato una pugnalata alla schiena, ma non tutti eravamo colpevoli.
Qui non c’era già più la tessera del pane e il pane si trovava; là, anche se avevano vinto la guerra, era ancora tutto tesserato e di non tesserato c’erano solo banane e cioccolata!
Andavamo ad imbiancare le case degli operai delle ferrovie (lì c’era un deposito di locomotive).
Abbiamo lavorato da 2-3 padroni, presso un’ impresa di muratori e imbianchini di proprietà di un signore di […] una brava persona, che però non ci pagava ci dava solo acconti, ci trattava da …, insomma, da italiani ed eravamo malvisti .
Nel 1947 c’erano ancora i prigionieri tedeschi di guerra (questi sì che venivano pagati!), li tenevano per ricostruire gli edifici danneggiati. A Gap c’era un campo di concentramento, la sera li riportavano lì.
Stavano sulla parola del padrone, dormivano anche con noi, nelle grange .
Siamo stati là fino al mese di novembre, ma a novembre avevamo già mangiato il pane (le scorte) di dicembre .
E cosa fare? (la voce del sig. Enrico è rotta dall’emozione) Siamo tornati di nuovo in Italia, facendo lavori onesti non era così facile far fortuna…
Siamo passati dal colle della Croce, dal colle d’Abries non si poteva passare perché c’era troppa neve. A Praly bisognava passare tutto di traverso perché c’erano i carabinieri e la guardia di finanza. Ci dissero: "Fate attenzione sono su!"
Così siamo passati tutto da un’altra parte e siamo andati a finire al lago Verde, (non c’era ancora il rifugio) per non farci sorprendere. Abbiamo mangiato solo noci. In un paesino francese, La Montà, abbiamo chiesto di poter dormire nella stalla ma non ci volevano ospitare perché la settimana prima, degli italiani avevano portato via la mucca. Poi mio padre si è fatto riconoscere, perché si era fermato lì a lavorare quando era andato in Francia la prima volta. solo per questo ci hanno permesso di restare. A proposito, quella mucca fu poi recuperata: era finita a Torre Pellice…
 
 
 
 
  INTERVISTA a Ester Reynaud classe 1915, San Germano Chisone (To)
di Tamara Pagetto
 
  La mamma e il papà della signora Ester, la mia vicina di casa, sono emigrati in Francia nel 1920 perché i loro genitori erano troppo poveri per mantenerli. Così in Francia si sono trovati un’abitazione e si sono sposati.
Il viaggio lo hanno fatto in parte in treno e in parte in carrozza.
Sono rientrati in Italia prima dello scoppio della seconda guerra mondiale nel 1937 perché i francesi non volevano più italiani nel loro stato e ci sono rimasti per tutta la vita.
 
     
  INTERVISTA a Franco Prinzio classe 1930 Villar Perosa (To)  
  Io sono emigrato nel 1947, a fine guerra.
La Francia aveva bisogno di manodopera; io sono venuto a conoscenza di questo malgrado fossi ancora abbastanza giovane. Io avevo dei parenti già emigrati in Francia (la loro è una famiglia di Dubbione), che venivano abbastanza sovente in Italia, anche perché noi, al termine della guerra, abbiamo avuto subito la possibilità di mangiare pane bianco e molti altri cibi, anche generi alimentari che la Francia non aveva ancora. Infatti, subito dopo la mia emigrazione dall’Italia, ho dovuto munirmi di una tessera per il pane: per due anni ho avuto un “ticket” (si chiamava così), e tutti i sabati dovevo recarmi a Place Carnot (a Marsiglia) a prelevare […] dove c’era la distribuzione della tessera del pane. I nostri parenti sapevano che da noi c’era già di tutto, perché l’Italia aveva accettato l’aiuto dell’America…
In Francia ci prendevano in giro, dicendo: – Voi vi siete venduti all’America, noi invece andiamo avanti da soli… – Queste cose mi sono state dette dal momento che mi vantavo di arrivare da un paese dove non c’era più la tessera del pane e dove si mangiava grazie agli Americani. Questo ai Francesi dispiaceva un po’!
Io sono emigrato per un semplice motivo: nostro padre era contadino e la famiglia aveva del bestiame. A me non piaceva lavorare la terra: avevo altre attitudini, altre aspirazioni… tra l’altro avevo sedici o diciassette anni, l’età in cui bisogna decidere cosa fare. Io purtroppo non avevo alcuna possibilità di impiego nell’industria o in altri settori, perché mio padre era proprietario terriero e aveva più di quattro mucche nella stalla: secondo le regole, per questo motivo, io non avevo possibilità di essere assunto, né alla RIV, né al cotonificio, né da nessun’altra parte. Avrei dovuto lavorare con i miei…
I parenti di Dubbione di cui le ho parlato prima, venendo dalla Francia hanno potuto dirci che c’era possibilità di emigrare per trovare impiego e sistemazione.
Quando ho ricevuto la proposta avevo sedici o diciassette anni, anzi, mi pare diciassette anni, perché mi sembra fosse quella l’età per avere diritto alla “cart du travaille”, un documento… e così abbiamo deciso.
Prima ci voleva una richiesta dai parenti della Francia, che scrivevano alla Prefettura di Torino dicendo che avevano la possibilità di dar lavoro e che avrebbero garantito vitto, alloggio…
Poi bisognava essere anche in buone relazioni con il maresciallo dei Carabinieri perché era lui che doveva fare l’indagine e poi rispondere alla Prefettura. Tutto è andato abbastanza bene, diciamo benissimo: avevo passaporto e tutto.
Sono riuscito ad avere un permesso di soggiorno per trenta giorni: sono emigrato con l’intento di fermarmi in Francia e trovare un lavoro, e questo non era difficile.
Io sono espatriato regolarmente, ma i miei amici di Pinasca e di Dubbione sono tutti emigrati clandestinamente passando da Sestriere, Cesana, Clavriere… Lì c’era un viottolo, che andava al Monginevro: di lì si scendeva a Briançon, si prendeva il treno e si andava chi a Nimes, chi ad Aix-en-Provence, chi a Marsiglia, chi sulla Costa Azzurra… e poi si trovava lavoro.
Pinasca era proprio una zona da cui sono partiti molti emigranti.... Gli emigranti di cui io sono a conoscenza erano soprattutto di Pinasca, ma ce n’era anche qualcuno di San Germano, perché nella zona di Marsiglia ci sono anche molti valdesi. Io ho conosciuto dei valdesi, e anche le loro tradizioni: per esempio, il diciassette febbraio, invece di accendere i falò, in tutte le case dove c’erano dei valdesi c’era un lumicino sulla finestra.
 
 
 
 
  Non era facile avere il permesso di soggiorno. C’erano anche dei costi per avere questi documenti e molta gente, visto che dalle nostre parti non si stava troppo bene, sceglieva l’emigrazione clandestina, che costava molto meno e che dava comunque la stessa garanzia che ha dato a me.
Chi era clandestino veniva impiegato maggiormente in campagna, nei boschi.
Chi invece aveva intenzione di orientarsi sull’industria doveva fornirsi di un permesso di soggiorno, perché senza quel documento non veniva rilasciata la “cart du travaille”.
Io, ad esempio, lavoravo in una fabbrica e dovevo avere tutte le assicurazioni, i documenti.
A me è successo di farmi male anche facendo il mio lavoro. L’azienda era collegata con un medico nella stessa zona dove esisteva l’azienda. Per qualsiasi cosa, ti facevano un permesso e ti facevano uscire per andarvi. Una volta mi sono piantato un chiodo in un piede, lì c’era il pericolo del tetano. Difatti mi hanno fatto uscire subito, mi hanno accompagnato, il medico mi ha fatto un’iniezione di richiamo… nessun problema.
Il viaggio l’ho fatto accompagnato da mio padre, con partenza da Villar Perosa: dovevo prendere il treno verso le quattro e mezzo. Sono salito sul treno a Pinerolo, sono stato accompagnato col cavallo da mio padre e puntuali siamo arrivati a Pinerolo, dove mi sono imbarcato. Ho avuto qualche difficoltà lungo il viaggio: in Italia no, ma in Francia ho rischiato di perdere il treno, perché ho visto una fontana in una stazione, probabilmente in quella di Nizza; qualcuno mi aveva detto che avevo il tempo di scendere, andare a bere e tornare: invece quando sono arrivato vicino alla fontana il treno si è messo in moto. Sono riuscito ad agganciarmi alla porta … ho rischiato molto. Comunque sono giunto alla stazione di Marsiglia, la Saint Charles, poi, siccome mi avevano dato un percorso da seguire, sapevo di dover scendere a Place Carnot, dove dovevo prendere un tram che andava poi dove c’erano questi parenti che mi aspettavano. È andato tutto liscio.
Dopo c’è stato il problema del lavoro. I miei parenti sono grossi commercianti di grano, paglia e prodotti per il bestiame, ma in quel periodo in Francia non c’era bisogno di operai nel commercio, serviva manodopera nelle miniere, nell’edilizia e nell’industria. Non ho potuto avere il contratto di lavoro, ma, dopo la scadenza del permesso di soggiorno, bisognava averne uno o si era obbligati a tornare in Italia. Io non volevo farlo. Tramite i parenti siamo riusciti a trovare un lavoro nell’industria edilizia, una fabbrica dove si producevano tegole, abbiamo avuto la fortuna di trovare una fornace il cui proprietario era emigrato da Asti. Quest’uomo aveva messo su una grossa azienda, “le Tuileries de Marseille”, e sapendo che venivo dal Piemonte non mi è stato difficile ottenere un contratto di lavoro per la durata di tre anni.
Non ho avuto grosse difficoltà di inserimento, il primo impatto è stato bellissimo. Ho trovato sempre persone gentili che parlavano italiano, perché Marsiglia è una città cosmopolita, e di italiani ce ne sono molti. Allora tutti mi volevano dare una mano…! In quel periodo molti marsigliesi, magari provenienti dal Piemonte, parlavano in “provençal”. Il “provençal” è una lingua che assomiglia molto al piemontese.
 
 
 
 
  E poi in quel periodo c’era una legge che diceva che chi non aveva ancora raggiunto i diciotto anni, ma aveva un contratto di lavoro, doveva per forza frequentare un corso di formazione (mi sembra di tre giorni alla settimana). A me ha fatto molto piacere: essendo nell’industria mi hanno proposto da subito di inserirmi in un corso di disegno industriale, dove non c’era tanto bisogno di scrivere, quanto di disegnare. Infatti il professore sapeva che, essendo arrivato da poco, non avevo molta dimestichezza con la lingua. Mi dava un bullone e mi diceva di farne dei rilievi. Fin lì io sono sempre stato obbligato a frequentare il corso, per vari motivi, che riguardavano anche il contratto di lavoro… Quando è scaduto dopo tre anni, nel cinquanta, avrei anche avuto la possibilità di restare, però cominciavo a rendermi conto di aver lasciato la mia casa, i miei terreni, la mia famiglia, ero diventato più responsabile. Sapevo che i miei avevano molto lavoro in campagna, mentre io ero là, tutto sommato abbastanza tranquillo. Queste cose mi hanno fatto decidere di ritornare.
Lo stipendio non era molto buono, ero giovane e lo spendevo quasi tutto, perché i miei non avevano necessità: io ero emigrato solo per cambiare vita, per inserirmi, per conoscere… Questo mi ha anche portato vantaggi successivamente. […]
Negli anni in cui ho vissuto in Francia ho vissuto con una zia vedova che si occupava di me come fossi stato suo figlio, aveva solo una grossa paura: sapeva che io ero solo ed arrivavo da un piccolo paese del Piemonte; trovandomi in una grande città, Marsiglia, avrei potuto trovare cattive compagnie. Già in quel periodo c’erano delle persone poco affidabili.
Là mi sono fatto tanti amici e ho conosciuto anche tante famiglie… In particolare un ragazzo, al quale ho poi fatto conoscere il mio paese e la mia famiglia.
Non ho mai sofferto di nostalgia. Scrivevo abbastanza sovente ai miei, ed ero felice. Mi sono trovato in un bel posto. Ho potuto da subito comprarmi una bicicletta; frequentavo l’Oratorio, perché i miei parenti erano molto religiosi. La prima cosa che mi hanno detto è stata: – Qui, la domenica si va a messa e poi all’Oratorio. – Era quasi un obbligo, ma lo facevo volentieri, perché sapevo di far contenti i miei parenti . La religione a Marsiglia era un po’ trascurata, noi abbiamo esportato lì la religiosità, l’attaccamento alla Chiesa. Non eravamo fanatici, però noi alla domenica, come si usava fare qua, continuavamo ad andare a Messa.
Per il resto ero in piena libertà… Ho passato tre anni molto belli, anche se non ho portato a casa soldi. Mio padre mi diceva: – Non ti preoccupare, spendi pure soldi… –
Gli italiani a Marsiglia costituivano un gruppo, i piemontesi erano quelli inferiori come numero, però c’erano moltissime famiglie emigrate dal sud, ed io ne ho conosciute un’infinità. Sono stato invitato a mangiare, anche perché la gente emigrata da tempo voleva sapere dell’Italia recente… Probabilmente erano persone emigrate negli Anni Venti, non mi ricordo più…
I piemontesi occupavano sempre un posto migliore rispetto agli altri emigranti, erano un po’ “privilegiati”. Comunque certi lavori devono pur venir svolti da qualcuno. Per esempio, appena arrivato dalla zia a Marsiglia, sono stato condotto a vedere la casa, e poi mia zia mi ha detto: – Guarda, Franco, devi sapere che qui non c’è il gabinetto. – Ed io: – Ma come facciamo? Ma dove andiamo?! – Allora mi hanno detto: – Nel "petite cadanot" c’è un secchio grosso. Si va lì. – E questo mi ha procurato qualche problema! Poi ha funzionato, ovviamente. Io ho pensato: “Ma devo poi portarla via, questa roba?”. Non dovevo: tutte le mattine passava un signore, un emigrante, con una specie di carro con una cosa simile ad una botte in metallo, passava a raccogliere tutto. E questo avveniva nella “Banliue” di Marsiglia, la periferia insomma, perché nella città c’erano tutti i servizi tranne quello delle fognature!
 
 
 
 
  La gente che faceva questo tipo di lavori arrivava dall’Abruzzo o dal Sud. Molti erano i siciliani, molti i napoletani… Una regione che invece si distingueva era quella dei toscani. Erano anche facilitati nella lingua, perché i toscani conoscono perfettamente l’italiano, e chi conosce bene l’italiano non ha difficoltà nell’apprendere il francese. Per me è stato difficile, l’apprendimento della lingua, perché a quei tempi in Piemonte si parlava solo il dialetto locale ed io quindi conoscevo in modo molto approssimativo e poco corretto l’italiano.
Le prese in giro sono durate molto poco anche nella fornace dove lavoravo. Sì, ogni tanto: – Ehi, macarony! – mi sentivo dire, ma erano cose cui non davo peso. Inoltre, acquisita la lingua, non c’era più differenza. Io andavo a ballare, ho avuto fidanzate, andavo ad imparare a nuotare…
Il cibo era molto gustoso e molto vario. La cosa che mi ha colpito è stata l’abbondanza di carne. Noi a Villar, in quel periodo, e anche dopo, mangiavamo la carne due o tre volte all’anno. I polli più belli mia madre li vendeva, si mangiava sempre qualche gallina che “non guardava bello”.
Mia zia quando mi ha visto mi ha detto: – Ma tu hai bisogno di cambiare nutrimento. – Io ho risposto: – Eh sì, ma sai benissimo com’è da noi. –
Lavoravamo tutti e due nella stessa azienda, io e mia zia, avevamo un intervallo di un’ora e mezza per mangiare. La sua casa non era lontana dall’azienda, dalla “Tuileries”, così si poteva passare dal macellaio per prendere le bistecche! Due bisteccone, ce le facevamo cuocere così… In Francia ho cambiato aspetto in pochi mesi perché, se per noi la carne era una cosa cara che non si poteva avere spesso, per i francesi era una cosa normale.
In Francia sono venuto a conoscenza del fatto di andare in ferie. A Villar non se ne parlava neanche, ma lì i miei parenti avevano una tenda, quindi si andava sempre in campeggio. Per me questa è stata una cosa particolare: pensare di dormire sotto una tenda, con tutta l’attrezzatura; questo mi ha colpito molto. Non riuscivo neanche a dormire lì sotto... E poi la macchina, un’altra cosa, il camion, per me era tutto…
Facevo due lavori nella stessa giornata. Lavoravo dalle otto a mezzogiorno e dall’una e mezza alle cinque, poi si usciva. Dopo partivo dall’officina e andavo nel magazzino dei miei parenti commercianti che, specialmente nel periodo primaverile, salivano quasi tutti i giorni oltre Aix-en-Provence. Si andava nella zona dove producevano le patate, perché ce n’era una per le patate, una per i meloni e così via. Mio cugino doveva fare tutti i giorni un carico di patate: erano sacchi di cinquanta chili, erano preparati da manodopera spagnola. Gli spagnoli venivano in Francia a fare gli stagionali. Si ritornava verso le nove. E questo lo facevo così, per dare una mano e poi mi piaceva conoscere il funzionamento del camion…

Ho avuto la fortuna di avere un datore di lavoro che mi apprezzava, e dei parenti che mi hanno sempre rispettato, ma a una condizione: di mantenere buona condotta.
Sono riuscito a ritornare con la loro stima e tutt’ora mantengo dei buoni rapporti con tutti i parenti.
Anche mio padre mi raccomandava di avere, se possibile, un buon comportamento nei riguardi della famiglia che mi aveva adottato… Per esempio, in una zona non molto lontana da quella dei miei parenti, che si chiama “La Juliette”, arrivavano i carichi dall’Italia di arance, sapevo che ogni tanto delle persone, di notte, andavano ed aprivano i vagoni dove erano contenuti i frutti, anche solo per veder cadere giù le arance ed io ho sempre cercato di restarne alla larga.
Se avessi sbagliato, sarei finito dai gendarmi, e siccome “i documenti parlano chiaro”, sarei stato rimpatriato sicuramente…
C’era anche un problema sindacale: in un lavoro industriale, ci sono gli scioperi e tutto il resto. Tra noi c’erano sette o otto spagnoli, ma di italiano c’ero solo io. Poi c’erano anche dei prigionieri tedeschi che alla fine della guerra non sono tornati in Germania, ma sono rimasti in Francia. A volte succedeva che il sindacato dell’industria proclamava degli scioperi, perché alcuni erano scontenti o che. E mia zia mi diceva: – C’è la “greve”, oggi, ma bisogna che tu vada, perché sei italiano. Devo dire che i sindacati, gli stessi delegati, ci dicevano: – C’è la “greve”, ma vuoi andare a lavorare? Allora vai! – perché sapevano che non andando avremmo rischiato molto di più. Potevamo anche farlo, non era detto che succedesse qualcosa di spiacevole; avremmo potuto rischiare qualcosa… Insomma, era bello da parte loro, che capivano…

 
 
 
 
  INTERVISTA a Irma Giovenale classe 1927 Perosa Argentina (To)  
  Mi ricordo che i miei si sono sposati verso il 1920 e poi sono emigrati in Francia.
Qui facevano gli agricoltori, perché avevano qualche pecora, qualche mucca, alla moda di una volta, mio papà faceva il taglialegna; poi si sono sposati e sono andati, tramite mio papà che aveva un fratello in Francia, nelle Hautes Alpes, in una famiglia. Mia mamma faceva i lavori di casa, mio papà invece andava a “sbattere le mandorle”, faceva “le stagioni”. Poi si è trovato un lavoro in un cava di pietre e faceva lo scalpellino, faceva il manovale perché non era specializzato. Dopo un anno così, si è fatto male: una pietra gli ha schiacciato un piede. E’ stato un po’ in ospedale e poi hanno deciso di tornare, perché mia mamma nel frattempo aspettava un figlio, e forse ero io: non so! Poi sono tornati in Italia e sono rimasti sempre qua.
Mio papà veramente era nato in Francia, ma era venuto via subito, piccolo, piccolo, perché sua mamma “bailava". Sua mamma si è fermata in Francia perché dava il suo latte ai figli dei ricchi, invece mio papà è stato allevato qua in Italia, come han potuto, con il latte di mucca.
La mamma poi è morta che aveva ventitrè anni. Suo papà si è risposato ed ha avuto cinque figli e cinque figlie.
 
     
  INTERVISTA a Nellina Sappè classe 1935 San Germano Chisone (To)
di Martina Bouchard
 
  Sappe’ Adolfo e Long Luigia, i genitori di mia nonna Nellina, sono emigrati insieme, intorno al 1920.
Sono emigrati perché c’era stata la guerra e quindi non trovavano più lavoro.
In Francia, Sappe’ Adolfo e Long Luigia, di mestiere, facevano i camerieri, si sono trovati bene.
Si sono spostati in treno: da Pinerolo fino in Francia, a Cannes.
Ma nel 1930 sono tornati a San Germano, dove erano riusciti ad acquistare una casa nella borgata Colombatti. Appena sono tornati è nata Denise, la nonna di Corinne; quattro anni dopo, nel 1935, è nata mia nonna Nellina.
 
 
 
 
  INTERVISTA a Ughetto Malvina classe 1919 Pinasca (To)  
  La famiglia di mio padre era composta da tre sorelle (Marietta madre di Ines Ghigo, Serafina madre della madrina di mia mamma Virginia Pelagio, Lessina Pelagio e di un’altra chiamata "Sole dell’Autassa" perché era molto bella (mamma di Ermelinda Beccari); una terza sorella abitava a Giborgo. Aveva anche un fratello Gaudenzio Ughetto padre di Linda e Cesare che emigrerà in Francia più tardi e farà ritorno più o meno negli anni ’20.
Quando io ero piccola Marietta e Serafina si erano già spostate in Francia con le figlie che sposarono dei fratelli Pelagio.
La famiglia di Serafina commerciava nel legname e dava lavoro ad altri che arrivavano da Grandubbione.
Alcuni facevano le stagioni, altri si fermavano per anni, come mio padre, e inviavano alla famiglia rimasta in Italia i soldi.
La vita qui era molto dura e mia madre si era fatta dei debiti con tutti i parenti, i primi soldi che ricevette da mio padre li usò per pagare proprio queste persone, che tra l’altro non la volevano più aiutare. Prima di andare in Francia mio padre era stato malato e la mia famiglia si era indebitata; l’aveva poi guarito il prete di Talucco con erbe e spugnature di acqua fredda.
In Francia è stato accolto dalla famiglia di mia madrina e si è fermato parecchi anni. Non mi ricordo se tornava tutti gli anni, ma non credo perchè allora si spostavano tutto a piedi e il viaggio era lunghissimo. Mi ricordo che la prima volta che l’ho visto ho chiesto a mia madre chi fosse e mi nascondevo dietro le sue gonne. Ci portava un po’ di cioccolato, noi eravamo molto golose. Qui la vita era molto dura, ogni volta che lui tornava la metteva incinta, poi lei da sola doveva tirare avanti la famiglia, il lavoro nei campi, occuparsi degli animali. Quando io avevo 14 anni lui non era ancora tornato. E’ arrivato un po’ prima del mio matrimonio ( Natale 1939), mia madrina non voleva ancora che rientrasse, ma lui desiderava venire a morire a casa sua e purtroppo fu ucciso dai "repubblichini" pochi anni dopo (1945).
Mia madrina Virginia Pelagio prima di partire per la Francia lavorava come impiegata alla RIV, ma la sua famiglia decise di trasferirsi tutta in Francia e lei fu costretta ad abbandonare il suo lavoro, ma lo rimpianse sempre. In Francia si fermarono nelle Basses Alpes e commerciavano legname. Lei sapeva cubare il legno, teneva la contabilità, anche quella dei vicini.
 
 
 
 
  INTERVISTA a Marta Valletti classe 1936 Perrero (To)  
  Sono emigrata in Francia nel 1938 a gennaio. Mio padre si chiamava Albino e mia madre Eleonora.
Mio padre non aveva più lavoro, allora era partito alla ricerca di un’occupazione in Francia, aveva lasciato a Perrero sua moglie con sette bambini.
Commerciava nel legname e faceva il carbone e mia madre aveva un negozio di alimentari.
Mio padre non trovava più lavoro per una questione politica, infatti si era rifiutato di prendere la tessera del partito fascista perché non ne condivideva le idee, così si è trovato disoccupato, praticamente è stato obbligato a partire per sfamare la sua numerosa famiglia.
I fascisti avevano anche chiesto alle donne di donare al partito il proprio anello di matrimonio e tutto l’oro che possedevano: mia madre non aveva voluto. Erano momenti molto difficili.
Dunque mio padre è partito, ha cercato lavoro, ha affittato una cascina e, siccome non avevano denaro, lui ha lavorato in un’altra fattoria che gli prestava il cavallo e gli attrezzi per poter mandare avanti quella che avevano in affitto.
Quindi faceva due lavori contemporaneamente e in cambio del suo lavoro gli davano patate, legumi, frutti della terra, così è riuscito a racimolare un po’ di denaro che gli ha permesso di riunire la famiglia in Francia.
Mia madre intanto continuava ad avere il suo negozio e poi l’ha venduto ad un certo signor Costabello di Perrero.
Nel 1938 mio padre è venuto a prenderci, aveva affittato un pulmino con il conducente; abbiamo portato via solo l’indispensabile: i documenti, il vestiario, un po’ di vasellame e di pentolame. I mobili invece li abbiamo lasciati tutti qui. Io ero piccolissima, sono nata nel dicembre del 1936 e siamo partiti a gennaio del 1938, quindi avevo appena un anno, perciò non ricordo nulla del viaggio.
Quando sono successi questi avvenimenti mio padre aveva 44 anni e quindi aveva un certo senso di responsabilità. Non è come quando si parte a 20 anni […]
Si sono recati a Manosque e la fattoria si trovava in un piccolo villaggio vicino che si chiama Pierrevert, si trova nelle Basses Alpes. Siamo rimasti a Carnine 4 anni e i miei genitori hanno avuto ancora un bambino (eravamo a quota 8 figli). Si sono poi trasferiti in una cascina più grande alla Bastide des Jourdan nel Vaucluse.
Le sorelle e i fratelli dei miei genitori erano già in Francia salvo uno o due, un fratello era addirittura emigrato in America. Così ora noi in Italia non abbiamo più nessuno, solo cugini.
In Italia era un periodo molto duro, non c’era lavoro, mentre in Francia mancava la manodopera e si trovava facilmente un’occupazione. La mia famiglia si è trovata bene in Francia, mio padre ha imparato a scrivere il francese e lo parlava benissimo, senza accento italiano; parlava anche il “patuà” del posto, il provenzale, che assomiglia molto al piemontese. Tuttavia i primi tempi sono stati un po’ difficili: ci dicevano: - Venite a mangiare il nostro pane!- - Les transalpin qui viennent manger notre pain -… Dopo è cambiato perché all’emigrazione italiana sono succedute quella spagnola, portoghese e adesso algerina e dall’Est europeo. Comunque per gli italiani è stato più facile inserirsi perché arrivavano da paesi che avevano la stessa religione dei francesi e una cultura e modi di vita simili, anche la lingua tutto sommato non era un ostacolo molto grande. […]
A sei anni sono andata a scuola, non sapevo parlare il francese, in casa parlavamo solo piemontese, il francese lo usavamo solo con i francesi. Ero tutta timida e a disagio perché non capivo e non sapevo rispondere. Noi italiani ci chiamavano “babì“, “macaronì”. Nel periodo in cui è emigrato mio padre non eravamo ben visti, mi ricordo che mi canzonavano “la babì, la babì”…
 
 
 
 
  Mio papà soffriva di nostalgia, mia mamma no: mia madre ha lasciato qui sua madre e non è mai più tornata a trovarla, mio padre invece tornava tutti gli anni a Perrero. A casa di mia nonna ho trovato le lettere che mia madre scriveva alla sua in cui diceva che era molto felice in Francia, avevano avuto un buon raccolto, mettevano da parte molti soldi …ma non era vero niente; non si erano arricchiti, semplicemente vivevano meglio. Mia nonna è morta nel 1948, io non l’ho conosciuta.
Mio padre tornava qui in inverno, perché in estate aveva troppo lavoro, ma non si sentiva più italiano, si era fatto naturalizzare francese. Un inverno cadde ammalato e diceva: -Non voglio morire qui, voglio tornare in Francia-.
Io sono tornata in Italia nel 1954, avevo 18 anni e sono andata a casa della nonna materna. Anche mio padre aveva una casa a Perrero, ma l’abbiamo venduta nel 1954 e abbiamo acquistato la cascina a Cadenet, nel 1956. Dopo l’acquisto della cascina mio papà non faceva più il boscaiolo: avevamo molta terra da coltivare, 21 ettari di vigne, avevamo delle pecore […]
Due fratelli lavoravano nella cascina, i più grandi, avevano una bella casa a Pierrevert.
Mia madre è morta nel 1956, aveva 55 anni, era molto giovane e tutte le mie sorelle erano già sposate, io no. Sono rimasta sola con mio padre e i miei tre fratelli, lavoravo alla conduzione della cascina e di lavoro ce n’era molto. Allevavamo molti animali: maiali, piccioni, oche, faraone, tacchini, mucche, capre, cavalli…
Di questo si occupava mia madre e dopo è toccato a me.
Vendevamo la carne di questi animali per guadagnare soldi. Non compravamo nulla da mangiare; andavamo alla macelleria solo la domenica per comprare il “pot-au-feu”; mangiavamo il merluzzo il venerdì perché mio padre era molto religioso, andava a messa per Natale e Pasqua, mia madre no. Per tutto il resto della settimana consumavamo prodotti della fattoria: uccidevamo il maiale, facevamo salami, salsicce, prosciutti… Con i prodotti dell’orto si facevano conserve per l’inverno, raccoglievamo noci, noccioline […]
Avevamo il trattore, il camion, avevamo tutti i macchinari che servivano per lavorare la terra, in particolare il grano e la vigna.
A Perrero la madre di mia mamma è rimasta sola con il figlio che è morto poi prima di lei e così una mia zia che abitava in Francia è venuta ad accudire mia nonna quando è diventata anziana, perché in Italia non aveva più parenti.
Quando mio padre è morto nel 1964 abbiamo venduto la fattoria e l’abbiamo divisa in nove parti. Mio fratello, che non era sposato e aveva sempre lavorato con mio padre, ha avuto la casa con le terre e noi il resto […]. In seguito è stata acquistata dal signor Dubrune che è un grande produttore agricolo e ha trasformato la proprietà in un vigneto. Ora lì si produce un vino famoso chiamato “La Cavale”: c’è un cavallo sull’etichetta.
Nella zona dove eravamo emigrati noi c’erano molti italiani, sono rimaste poche le persone veramente francesi. Nei dintorni di Marsiglia, ad esempio, ci sono moltissimi italiani, ci sono più cognomi italiani che francesi. In quella zona andavano soprattutto per fare i muratori.
Io mi sono sposata con un vero francese, la sua famiglia risale al 1700 […] mio figlio ha fatto delle ricerche, lui non può più dire di essere un puro francese, ma è orgoglioso di avere anche sangue italiano […]
La prima volta che sono tornata in Italia, a 18 anni, ho trovato tutto bello, il paesaggio era diverso, perché noi non abbiamo montagne. Quando sono arrivata alla casa dove abito attualmente e dove mia madre è nata, mi sono sentita turbata e mi sono messa a piangere perché pensavo che mia madre non era più tornata. Ed è a partire da quel momento che ho amato quella casa, in seguito l’ho fatta ristrutturare e ci torno tutti gli anni […]
 
 
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