Le Valli Chisone e Germanasca Emigrazione nella Prima Metà del 900 Emigrazione nella Seconda Metà del 900 Emigrazione Oggi
Le Valli Chisone e Germanasca Emigrazione nella Prima Metà del 900 Emigrazione nella Seconda Metà del 900 Emigrazione Oggi
Leggi i racconti degli emigranti verso Marsiglia
  La zona di Marsiglia era certamente tra le zone più frequentate, tant’è ...(continua)  
Leggi i racconti del papà di Marta Valletti
  “…Mio padre non aveva più lavoro, allora era partito alla ricerca di un’occupazione in ...(continua)"  
Leggi il racconto di Aldo Roventi Beccari
  “…Durante i due anni di permanenza non cambiai mai le mie mansioni, ero il ...(continua)"  
Leggi i racconti di Franco Prinzio
  “…Tramite i miei parenti siamo riusciti a trovare un lavoro nell’industria edilizia...(continua)"  
Leggi il racconto di Bruno Enrico
  “…Andavamo ad imbiancare le case degli operai delle ferrovie...(continua)"  
Leggi il racconto di Alex Berton
  “…L’emigrazione di questo tipo forniva ad ogni famiglia una notevole entrata...(continua)"  
Leggi i racconti e guarda le foto delle donne di Pramollo
  “… Giuseppina Reynaud, nata a Pramollo, nel 1899, è andata a fare la balia in...(continua)"  
  Verso quale futuro  
  Oltre alla vicinanza con le nostre Valli e ad antichi legami di tipo economico e politico, la Francia aveva un grande bisogno di braccia per far funzionare la propria economia: a differenza dell’Italia, era meno abitata, l’industria vi si era sviluppata prima, il suo territorio era più pianeggiante, adatto alle attività agricole.
Le regioni francesi verso cui si dirigevano maggiormente gli emigranti delle nostre Valli erano le seguenti: Provece, Côte d’Azur, Rhone Alpes, Lorraine, Centre.
La zona di Marsiglia era certamente tra le zone più frequentate, tant’è che Marta Valletti, classe 1936, dice:

“… Nella zona dove eravamo emigrati noi c’erano molti italiani, sono rimaste poche le persone veramente francesi. Nei dintorni di Marsiglia, ad esempio, ci sono moltissimi italiani, ci sono più cognomi italiani che francesi…”

Alex Berton
, classe 1933, parla ancora di Marsiglia, ma allarga il campo:

“… Il flusso dei pragelatesi si dirigeva su Marsiglia, Cannes, Nizza, ma più massicciamente sulla Savoia: Chambery, Annecy, Aix- Le- Bain, Evian o Parigi, Dihar, Vittel...”


 
  Ingrandisci l'immagineParigi era la meta delle donne che si recavano a servizio presso le famiglie facoltose in qualità di balie o di dame di compagnia.  
 
 
 
  L’estrema povertà o più semplicemente la prospettiva di guadagni migliori inducevano le persone a scegliere la via dell’emigrazione. Strada consolidata nel tempo, che nella prima metà del Novecento veniva spesso preferita al nascente lavoro in fabbrica.
Anche perché essere assunti nelle fabbriche che erano nate in Valle non era così facile, ricorda Franco Prinzio, classe 1930, emigrato nel primo dopoguerra:

“… Io sono emigrato per un semplice motivo: nostro padre era contadino e la famiglia aveva del bestiame. A me non piaceva lavorare la terra: avevo altre attitudini, altre aspirazioni… tra l’altro avevo sedici o diciassette anni, l’età in cui bisogna decidere cosa fare. Io purtroppo non avevo alcuna possibilità di impiego nell’industria o in altri settori, perché mio padre era proprietario terriero e aveva più di quattro mucche nella stalla: secondo le regole, per questo motivo, io non avevo possibilità di essere assunto, né alla RIV, né al cotonificio, né da nessun’altra parte. Avrei dovuto lavorare con i miei…”

 
 
 
 
  Con l’avvento al potere del fascismo le cose si complicarono ancora: per trovare lavoro era necessaria la tessera del partito, così molte persone che non volevano piegarsi a questi ricatti, presero ancora una volta la via dell’emigrazione. E’ il caso di Albino Valletti, padre di Marta.

Ingrandisci l'immagine“…Mio padre non aveva più lavoro, allora era partito alla ricerca di un’occupazione in Francia, aveva lasciato a Perrero sua moglie con sette bambini.
Mio padre commerciava nel legname e faceva il carbone e mia madre aveva un negozio di alimentari.
Mio padre non trovava più lavoro per una questione politica, infatti si era rifiutato di prendere la tessera del partito fascista perché non ne condivideva le idee, così si è trovato disoccupato, praticamente è stato obbligato a partire per sfamare la sua numerosa famiglia…”

 
     
  Ingrandisci l'immagineMolti emigranti dalle Valli in Francia si occupavano di legname, facevano i carbonai, i boscaioli. Quelli che riuscirono a fare fortuna diventarono proprietari di una piccola impresa commerciale.  
     
  Altri trovarono diverse occupazioni sempre in campo agricolo.
Marta Valletti:

“… Dunque mio padre è partito, ha cercato lavoro, ha affittato una cascina e, siccome non avevano denaro, lui ha lavorato in un’altra fattoria che gli prestava il cavallo e gli attrezzi per poter mandare avanti quella che avevano in affitto.
Quindi faceva due lavori contemporaneamente. In cambio del suo lavoro gli davano patate, legumi, frutti della terra, così è riuscito a racimolare un po’ di denaro che gli ha permesso di riunire la famiglia in Francia…”



Il padre di Marta Valletti non era il solo a fare due lavori, anche Franco Prinzio, impiegato nell’industria edilizia, visse una situazione simile:

Ingrandisci l'immagine“…Facevo due lavori nella stessa giornata. Lavoravo dalle otto a mezzogiorno e dall’una e mezza alle cinque, poi si usciva. Dopo partivo dall’officina e andavo nel magazzino dei miei parenti commercianti che, specialmente nel periodo primaverile, salivano quasi tutti i giorni oltre Aix-en-Provence. Si andava nella zona dove producevano le patate, perché ce n’era una per le patate, una per i meloni e così via. Mio cugino doveva fare tutti i giorni un carico di patate: erano sacchi di cinquanta chili, erano preparati da manodopera spagnola. Gli spagnoli venivano in Francia a fare le stagioni. C’era un grosso produttore, e tutti i giorni dopo le cinque si saliva col camion a caricare queste patate che lui aveva ordinato. Allora io uscivo dalla fabbrica, salivo sul camion con lui e andavamo a caricare. Si ritornava verso le nove, cenavo con loro e poi tornavo da mia zia. E questo lo facevo così, per dare una mano e poi mi piaceva conoscere il funzionamento del camion…”

 
 
 
 
  Aldo Roventi Beccari, classe 1930, porta la sua testimonianza di lavoratore agricolo:

Ingrandisci l'immagine“… Durante i due anni di permanenza non cambiai mai le mie mansioni, ero il “sartiè” cioè l’addetto ai cavalli che erano impiegati ad arare, seminare, mietere, trainare i carri, ecc.
Quindi facevo anche lo stalliere, e al pomeriggio si provava a guidare il trattore (il primo che abbia mai visto).
Bisogna pensare che era finita da poco la 2° guerra mondiale, a Dieppe, distante circa 30 km dalla fattoria, erano sbarcati gli alleati, la Francia stava lentamente tentando di ricominciare a vivere in un modo normale.
La paga sinceramente non mi sembrava un granchè: per 5000 franchi al mese, compresi vitto e alloggio, dovevo lavorare dalle cinque del mattino alle dieci di sera di tutti i giorni dell’anno, tranne una settimana di vacanza.
L’alloggio era fornito dai proprietari ed era una stanza senza servizi in una specie di magazzino per gli attrezzi, freddo e polveroso.Ingrandisci l'immagine
La cosa che più apprezzavo era poter lavorare gestendomi autonomamente, ovviamente dovevano esserci i risultati a fine giornata…”

 
     
  Spesso i lavori erano pesanti e poco sicuri.
Manodopera veniva impiegata anche nelle cave e nelle miniere.
Ambra Varzani che ha intervistato il nonno, Bruno Bordiga (classe 1930), dice:

“… Il mio tris nonno partiva da Porte per andare a piedi fino in Francia a lavorare come scalpellino…”



Irma Giovenale, classe 1927, di Perosa Argentina, ricorda:

“… I miei si sono sposati verso il 1920 e poi sono emigrati in Francia […] tramite mio papà che aveva un fratello là, nelle Hautes Alpes, in una famiglia. Mia mamma faceva i lavori di casa, mio papà invece andava a “sbattere le mandorle”, faceva “le stagioni”. Poi si è trovato un lavoro in un cava di pietre e faceva lo scalpellino, faceva il manovale perché non era specializzato. Dopo un anno così, si è fatto male: una pietra gli ha schiacciato un piede. E’ stato un po’ in ospedale e poi hanno deciso di tornare perché mia mamma in quel frattempo aspettava un figlio …”

 
 
 
 
  Ingrandisci l'immagineSoprattutto nella zona di Marsiglia si dirigeva il flusso di persone che lavoravano nell’edilizia: molti facevano i muratori, ma alcuni erano impiegati nelle industrie collegate a questo settore, racconta Franco Prinzio:


“…Tramite i miei parenti siamo riusciti a trovare un lavoro nell’industria edilizia, una fabbrica dove si producevano tegole, abbiamo avuto la fortuna di trovare una fornace il cui proprietario era emigrato d'Asti. Quest’uomo aveva messo su una grossa azienda, “le Tuileries de Marseille”, e sapendo che venivo dal Piemonte non mi è stato difficile ottenere un contratto di lavoro per la durata di tre anni…”


In queste situazioni il lavoratore era maggiormente tutelato.
Franco Prinzio:

“… Io, ad esempio, lavoravo in una fabbrica, e dovevo avere tutte le assicurazioni, i documenti, ecc., nei lavori di campagna, invece, questo non si richiedeva.
A me è successo di farmi male anche facendo il mio lavoro. L’azienda era collegata con un medico nella stessa zona dove esisteva l’azienda. Per qualsiasi cosa, ti facevano un permesso. Uscivo e andavo dal medico. Era organizzato così…
Una volta mi sono piantato un chiodo in un piede, lì c’era il pericolo del tetano. Difatti mi hanno fatto uscire subito, mi hanno accompagnato dal medico che mi ha fatto un’iniezione di richiamo… nessun problema.
E poi in quel periodo c’era una legge che diceva che chi non aveva ancora raggiunto i diciotto anni, ma aveva un contratto di lavoro, doveva per forza frequentare un corso di formazione (mi sembra di tre giorni alla settimana). A me ha fatto molto piacere: essendo nell’industria mi hanno proposto da subito di inserirmi in un corso di disegno industriale, dove non c’era tanto bisogno di scrivere, quanto di disegnare. Infatti il professore sapeva che, essendo arrivato da poco, non avevo molta dimestichezza con la lingua. Mi dava un bullone e mi diceva di farne dei rilievi…”

 
 
 
 
  Dalle interviste emergono i legami di solidarietà che legano gli italiani emigrati nel nuovo paese. Tuttavia la tipologia di impieghi era molti diversificata e non sempre così rosea.
Franco Prinzio:

“… Gli italiani a Marsiglia costituivano un gruppo, i piemontesi erano quelli inferiori come numero, però c’erano moltissime famiglie emigrate dal Sud, ed io ne ho conosciute un’infinità. Sono stato invitato a mangiare, anche perché la gente emigrata da tempo voleva sapere dell’Italia recente… Probabilmente erano persone emigrate negli Anni Venti, non mi ricordo più…
I piemontesi occupavano sempre un posto migliore rispetto agli altri emigranti, erano un po’ “privilegiati”. Comunque certi lavori devono pur venir svolti da qualcuno. Per esempio, appena arrivato dalla zia a Marsiglia, sono stato condotto a vedere la casa, e poi mia zia mi ha detto: – Guarda, Franco, devi sapere che qui non c’è il gabinetto. – Ed io: – Ma come facciamo? Ma dove andiamo?! – Allora mi hanno detto: – Nel “petite cadanot”, c’è un secchio grosso. Si va lì. – E questo mi ha procurato qualche problema! Poi ha funzionato, ovviamente. Io ho pensato: “Ma devo poi portarla via io, questa roba?”. Non dovevo: tutte le mattine passava un signore, un emigrante, con una specie di carro con una cosa simile ad una botte in metallo, passava a raccogliere tutto. E questo avveniva nella “Banliue” di Marsiglia, la periferia insomma. Perché nella città c’erano tutti i servizi tranne quello delle fognature!
La gente che faceva questo tipo di lavori arrivava dall’Abruzzo o dal Sud. Molti erano i siciliani, molti i napoletani…”

 
 
 
 
  Bruno Enrico racconta un’altra situazione di lavoro riferita al periodo immediatamente successivo alla fine della seconda guerra mondiale.

“… Andavamo ad imbiancare le case degli operai delle ferrovie (lì c’era un deposito di locomotive).
Abbiamo lavorato da due o tre padroni, presso un’ impresa di muratori e imbianchini di proprietà di un signore di […] una brava persona, che però non ci pagava ci dava solo acconti, ci trattava da …, insomma, da italiani ed eravamo malvisti…”

Dall’alta Valle partiva manodopera che trovava impiego come barman, venditori di caldarroste, lavoratori nelle “brasserie”, operai nelle fabbriche di biciclette o nelle coltivazioni di tabacco.
Tantissime persone trovavano lavoro nel settore alberghiero, nelle grandi città della costa Azzurra, o nella regioni dei laghi e delle acque minerali.
Pragelato, in particolare, sviluppò una consolidata tradizione verso questo tipo di emigrazione a carattere stagionale, che per altro, risultava estremamente redditizia.

 
 
 
 
  Alex Berton afferma:

“… L’emigrazione di questo tipo forniva ad ogni famiglia una notevole entrata, un guadagno inimmaginabile per l’epoca, se consideriamo il fatto che allora la Lira valeva più del Franco francese.
I miei genitori si sono sposati nel 1927, hanno costruito la casa dove ora vivo io, era già finita nei primi Anni Trenta, pagata con il solo introito delle mance…”

Gli alberghi verso cui si dirigevano erano lussuosi, richiedevano moltissimo personale e un lavoratore ne raccomandava un altro, tanto che alla fine Alex Berton dice:

“… erano degli alberghi con l’80% del personale costituito da pragelatesi. Mia mamma (francese) immaginava Pragelato una città di 40.000 abitanti, tutti gli italiani che conosceva nell’albergo erano di Pragelato…
Ingrandisci l'immagine… Il Grand Hotel di Vittel, dove lavoravano mio papà e mia mamma, era di 150/200 posti letto e c’erano 300 dipendenti. Il solo parco era di una quindicina di ettari e aveva 24 ore su 24 un’orchestra che suonava un sottofondo musicale. La clientela arrivava con macchine private o con vagoni letto e con tre o quattro, cinque, sei bauli […], sceglievano l’albergo nel quale sapevano di ritrovare il maitre, la governante, quel determinato personale. Era una clientela danarosa. Mia mamma è stata governante, quindi si occupava delle camere e cambiava divisa tre volte al giorno.
Non si vedevano donne in sala ristorante, i ruoli maschili e femminili erano netti. La donna aveva ruoli più personali come la ristiratura delle crinoline, la pulizia della suite o della camera che veniva anche arredata in funzione del tipo di clientela che aveva […]
Non vi erano contributi previdenziali o assistenziali, non vi era una paga, veniva dato l’alloggio gratuito e il vitto gratuito e le mance costituivano lo stipendio e venivano ripartite in funzione dei compiti svolti. […]
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Le ore di lavoro erano di 15, 16 al giorno, ma era una cosa comune, d’altra parte chi rimaneva in Valle e lavorava la campagna aveva un orario altrettanto duro: si diceva che erano 8 mesi d’inverno e 4 d’inferno…”

Questo tipo di lavoro consentiva di migliorare la propria situazione a anche di fare carriera.

 
 
 
 
  Le donne delle Valli venivano occupate come cameriere, governanti, dame di compagnia e balie presso famiglie facoltose.
Alda Jahier, classe 1932, ricorda:

“… Giuseppina Reynaud, nata a Pramollo, nel 1899, è andata a fare la balia in Francia.
Aveva lasciato qui a Pramollo il suo primo figlio ed era andata ad allattare il neonato di una ricca famiglia di Parigi; i soldi che le davano li spediva alla famiglia.
Per molti anni è rimasta “al servizio” di quella famiglia, facendo tanti lavori.
Come lei hanno fatto molte donne di Pramollo…”



 
 
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Le Donne di Pramollo
 
     
  Escludendo l’impiego nei grandi alberghi, non si può dire che gli emigranti in genere godessero di salari particolarmente alti, soprattutto nel periodo che seguì la seconda guerra mondiale.
I lavoratori agricoli, in più di una situazione, venivano pagati con prodotti della terra o con vitto e alloggio. Tuttavia questi magri introiti dovevano rappresentare un miglioramento rispetto alla condizione di vita dei propri luoghi d’origine, almeno non si gravava sul magro bilancio familiare. Ciò che permetteva ai nostri emigranti di riscattarsi e di compiere un salto di qualità era una grande forza di volontà nel perseguire un sogno: la cascina di proprietà, il piccolo esercizio commerciale… e nel moltiplicare, a questo scopo, le ore di lavoro.

Essere emigranti significava essere meno tutelati sul lavoro per quanto riguardava i propri diritti: in campo sanitario, come abbiamo già visto, ma anche in campo sindacale.
Franco Prinzio:

“… Era anche un problema sindacale: in un lavoro industriale, ci sono gli scioperi e tutto il resto. Tra noi c’erano sette o otto spagnoli, ma di italiano c’ero solo io. Poi c’erano anche dei prigionieri tedeschi che alla fine della guerra non sono tornati in Germania, ma sono rimasti in Francia. A volte succedeva che il sindacato dell’industria proclamava degli scioperi, perché alcuni erano scontenti o che. E mia zia mi diceva: – C’è la “greve”, oggi, ma bisogna che tu vada, perché sei italiano -. Devo dire che i sindacati, gli stessi delegati, ci dicevano: – C’è la “greve”, ma vuoi andare a lavorare? Allora vai! –, perché sapevano che non andando avremmo rischiato molto di più. Potevamo anche farlo, non era detto che succedesse qualcosa di spiacevole; avremmo potuto rischiare qualcosa… Insomma, era bello da parte loro, che capivano…”

Per quanto riguarda la previdenza sociale Alex Berton afferma:

“… In Francia non esisteva la previdenza sociale, ma vi erano casse che gravavano sul datore di lavoro e garantivano un pensione complementare, bastava esibire i certificati di lavoro. E i certificati di lavoro tutti li conservavano perchè erano un po’ il curricolo di ognuno. Alla fine di ogni stagione ne veniva assegnato uno…”

 
 
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